venerdì 24 agosto 2012

Trasmissioni italiane clandestine contro l’invasione sovietica

Août 1968: des émissions italiennes clandestines contre l’invasion soviétique
di Jaroslava Gissübelova
Pubblicato nella Repubblica Ceca il 22 agosto 2012
Traduzione di Claudia Marruccelli

Un capitolo meno noto della storia ceca: il ruolo svolto dalle trasmissioni clandestine in lingua ceca, Oggi in Italia, durante l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia 44 anni fa, il 21 agosto 1968.
Sede di Oggi in Italia

Oggi in Italia, che aveva iniziato a trasmettere clandestinamente da Praga verso la penisola italica nel 1951 come strumento di propaganda comunista, nell’agosto del 1968 si scaglia contro l’occupazione sovietica. Mentre la maggior parte delle emittenti radiofoniche del paese era stata censurata, e la popolazione privata del diritto all’informazione, l’emittente clandestina italiana metteva a disposizione dei giornalisti cecoslovacchi le sue frequenze.
Dopo la chiusura degli studi, l’unica emittente che continuerà a trasmettere, ben nascosta in una villa di proprietà di una famiglia comunista a Nusle, nel 4° distretto di Praga, fu quella di Oggi in Italia. Grazie ai tecnici e a un’impiegata delle trasmissioni internazionali della radio ceca, si stabilì che quella emittente si sarebbe messa a disposizione dei giornalisti cecoslovacchi. Da quel giorno Oggi in Italia fu l’unica radio a trasmettere in ceco, mentre tutte le altre radio erano state oscurate. Secondo lo storico Oldrich Tuma, dell’istituto di storia moderna, il ruolo dei media, tra cui in primo luogo la radio come fonte d’informazione immediata sull’evoluzione della situazione del paese, ha rivestito un’enorme importanza.

Ingresso dei carri armati sovietici a Praga

Accanto alle trasmissioni dei giornalisti cechi, I redattori italiani hanno continuato a informare su ciò che accadeva a Praga.
Oggi in Italia nacque alla fine del 1950, su iniziativa del partito comunista italiano che non avendo potuto avere accesso ai media del servizio pubblico in occasione delle elezioni organizzate due anni prima, decise di mettersi in proprio. Oldrich Tuma racconta:

“Dopo il 1948, la Cecoslovacchia era diventata terra d’asilo preferita da un certo numero di comunisti e membri di altri partiti di sinistra, in particolare provenienti dall’Europa occidentale. C’erano greci, italiani, francesi, ma anche yugoslavi, che si opponevano al regime di Tito dopo la rottura tra l’Unione Sovietica e la Yugoslavia”.
Berlinguer al congresso del PCI

I primi giornalisti di Oggi in Italia erano partigiani italiani che avevano trovato rifugio in Cecoslovacchia dopo la guerra. Negli archivi dell’Istituto per lo studio dei regimi totalitari viene citato tra i collaboratori delle trasmissioni clandestine italiane anche un ceco: Vladimir Tosek, futuro giornalista televisivo, ma anche agente del contro spionaggio della Stb costretto a collaborare per via delle sue attività in esilio a Londra durante la guerra.
Bisogna aggiungere che le trasmissioni clandestine di Oggi in Italia sono state mandate in onda da Praga per venti anni, dal 1951 al1971. L’indirizzo ufficiale della radio era a Berlino. Le autorità cecoslovacche fingevano di ignorare la sua esistenza. Nel 1958 l’Italia minacciò il congelamento delle relazioni diplomatiche con la Cecoslovacchia e il blocco delle importazioni dal paese oltre che l’interruzione del rilascio dei visti, in considerazione del perdurare della situazione. All’inizio degli anni ’60, si ottenne un certo disgelo politico. Il segretario generale del partito comunista italiano Luigi Longo venne a Praga per esprimere la sua solidarietà alla nuova dirigenza del partito comunista ceco guidato da Alexander Dubcek. Ma quando Dubcek fu rimosso dal suo incarico, anche Oggi in Italia ha smesso di trasmettere sul territorio cecoslovacco. Il motivo reale e ufficiale della chiusura dell’emittente fu l’intervista mandata in onda nel 1971 del nuovo segretario del partito comunista italiano Enrico Berlinguer, in cui condannava la politica di Mosca e il processo di normalizzazione in Cecoslovacchia.

giovedì 23 agosto 2012

La fine dell’euro è nell’aria


La fin de l'euro entre dans les esprits

di Jean-Marc Vittori
Pubblicato in Francia il 20 agosto 2012
Traduzione di Claudia Marruccelli

Prepariamoci alla fine dell’euro. Cinque anni fa solo a un fantasista o a un estremista poteva venire in mente un’idea del genere. Poi è arrivata la crisi, il terremoto greco e le sue scosse di assestamento, arrivate fino in Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia e che hanno scosso anche la Francia. Il primo rimedio proposto contro i disastrosi effetti di questo terremoto è stato quello di espellere gli alunni indisciplinati dalla zona euro. La cancelliera Angela Merkel, lo annunciava già dalla primavera del 2010, le hanno fatto eco la settimana scorsa i ministri austriaci e, a sentir loro, la pista sarebbe stata presa in esame dai governi europei.
La seconda soluzione, la più radicale, non riguarda un paese soltanto o qualche paese, ma proprio tutta la zona euro, che è scoppiata. Questa soluzione è stata proposta inizialmente da guru, esperti e cassandre. Dalla scorsa estate, durante la quale la Spagna e l’Italia sono state attaccate sui mercati finanziari, questa frammentazione è diventata un’ipotesi di lavoro. Prima nel settore privato, nella private banking e nei comitati di amministrazione delle grandi aziende, e poi nel settore pubblico. Il Ministro degli esteri finlandese Erkki Tuomioja, ha vuotato il sacco la settimana scorsa, spiegando che il suo governo era già pronto a questa eventualità. La cosa certa è che i finlandesi, che sono stati i primi ad accogliere con orgoglio l’avvento dell’euro, sono oggi tra i più delusi e lo hanno fatto sapere a gran voce con il loro voto.

Questo lento cambiamento di opinione, in cui ciò che era inimmaginabile è diventato concepibile se non addirittura probabile, mina profondamente la moneta unica. Credere alla fine dell’euro fa presagire la fine della credibilità dell’euro, poiché il denaro non è un costrutto umano come altri. Esso si basa principalmente sulla fiducia e soprattutto per quel che riguarda l’euro, piuttosto che il dollaro, lo yen, la sterlina o il franco svizzero, dato che l’euro è la prima grande moneta creata senza alcun fondamento materiale come l’oro o l’argento.
Con il meccanismo infernale di un’unione monetaria senza un’unione fiscale, i governi europei si sono arenati in una pericolosa alternativa. Di fronte ad una crisi, che questo meccanismo non consente di affrontare, non prepararsi alla fine dell’euro significherebbe dimostrare di essere incoerenti se non incoscienti. Prepararsi alla fine dell’euro aumenta la probabilità di realizzazione di questo evento distruttivo, agevolandolo in tutta una serie di decisioni di aspetto tecnico.
Nel secolo scorso, gli Europei hanno avuto a che fare due volte con un dilemma simile: prepararsi per la Guerra o meno. Sappiamo com’è andata a finire. Da allora si suppone che abbiamo imparato.

Campania Felix

En Campanie, les anciens ont leur place dans la vie sociale
In Campania, le persone anziane hanno un loro ruolo preciso nella vita sociale
di Anne le Nir
Pubblicato in Francia il 22 agosto 2012
Traduzione di Claudia Marruccelli


In questa regione disagiata dell’Italia meridionale, i legami familiari consentono una buona assistenza alle persone più anziane. Il tasso di suicidi è molto ridotto. Secondo le cifre dell’OMS, è in Campania che si registra la percentuale di suicidi più bassa in Italia, il 2.6 % su 100.000 abitanti contro il 9.8 nel Friuli, regione del nord est in cui il numero dei suicidi è il più elevato.
Quindi la Campania è una delle regioni più povere della penisola ma con un numero altissimo di persone anziane. Il dottor Enzo Spatuzzi, 57 anni, psichiatra presso una clinica di Napoli e segretario dell’Associazione italiana dei medici psichiatrici, l’Apsimed, raccomanda cautela di fronte a queste statistiche. «In Campania il suicidio è visto come un tabù, per motivi religiosi e culturali”.
A volte è proprio la famiglia che chiede al medico di nascondere un suicidio e dichiarare il decesso per crisi cardiaca. Tuttavia i suicidi di persone molto anziane, che siano uomini o donne, sono comunque molto meno frequenti che in altre regioni. Secondo il medico, questo si spiegherebbe con diversi fattori. “La dieta mediterranea, a base di verdura, frutta e olio d’oliva, stimola l’azione dei neurotrasmettitori e può ritardare il declino cognitivo. Occorre anche far rilevare che i napoletani, a causa della loro storia segnata da varie dominazioni, hanno una forte capacità di adattamento alle difficoltà della vita”.


Anche a 99 anni la gente si ritiene utile
In particolare, i campani di una certa età non vivono da soli. “Noi la chiamiamo l’economia solidale del vicolo [in italiano nell’articolo ndt]”. C’è la famiglia e la famiglia allargata, ossia i vicini di quartiere, con una effettiva vita sociale. E’ così che gli anziani, anche se hanno 99 anni, si sentono utili. “A Napoli non si emarginano gli anziani, anzi sono rispettati” dice il dott. Spatuzzi. In Campania, come in altre regioni del sud, la vecchiaia, e le malattie che ne derivano sono vissute come un fenomeno naturale che non deve richiedere l’uso esagerato delle medicine, ma attenzione e buon umore.
Anche il medico di famiglia svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione dei suicidi, “soprattutto negli uomini molto anziani, o che si sentono tali, anche se hanno solo 70 anni. Si vergognano, hanno difficoltà a rivelare le loro sofferenze psichiche”, spiega il dottore. Un paziente depresso dice: ” Ho mal di schiena, mi fa male il fegato”. Tocca al medico saper individuare un eventuale disagio. “Occorre sempre fare dei controlli medici, se si desidera prevenire con successo i casi di suicidio. Per esempio invitando gli anziani a farsi controllare regolarmente la pressione arteriosa”, dice Vincenzo Spatuzzi. Ma la migliore prevenzione, secondo lui, è mantenere le relazioni affettive, familiari e sociali, che a Napoli, dove il dottore esercita da trent’anni, sono fortemente supportate dalle associazioni cattoliche.

mercoledì 22 agosto 2012

La Chiesa conferma la sua opposizione ai matrimoni gay in Francia

L'Eglise confirme son opposition au mariage homo en France
di Maud Koetschet e Florian Tixier
Pubblicato in Francia il 15 agosto
Traduzione di Claudia Marruccelli

In occasione della festa dell’Assunzione, il 15 agosto, la Conferenza dei Vescovi francesi ha consigliato la lettura di una “preghiera universale dei fedeli” durante la messa. Si tratta di un invito implicito al rifiuto della legalizzazione dei matrimoni gay che il governo socialista intende adottare, così come nel 2013, della possibilità per le coppie omosessuali di adottare.


Un messaggio implicito ma chiaro
La Chiesa ribadisce la propria opposizione, ma implicitamente, e lo fa in primo luogo con un appello al governo: “Per coloro che sono stati recentemente eletti per legiferare e governare, affinché il loro senso del bene comune della società superi le necessità particolari (…)
La preghiera, poi, spiega, cosa sia questo senso del “bene comune” che riguarda i giovani: “Per i bambini e i giovani, affinché cessino di essere l’oggetto dei desideri e dei conflitti degli adulti, per poter beneficiare dell’amore di un padre e di una madre”.
L’implicazione che riguarda la necessità di essere educati da due genitori di sesso opposto, non poteva essere più chiara…
Questa nuova presa di posizione divide i fedeli della Chiesa cattolica, anche se ormai il 65% dell’opinione pubblica francese si dichiara favorevole al matrimonio tra omosessuali. Essa riflette inoltre la forte resistenza residua in Francia rispetto ai cambiamenti della società, mentre in diversi paesi d’Europa, il matrimonio gay è stato ufficialmente autorizzato.


Seguire la tendenza europea
Appare quindi chiaro che la tendenza europea è volta ad aprire il matrimonio anche alle persone dello stesso sesso: in sette paesi europei il matrimonio tra persone dello stesso sesso è già legale, mentre in quattro paesi (tra cui la Francia) sono state introdotte solo unioni civili come le PACS. Dal 1994, il parlamento europeo ha adottato numerose risoluzioni a favore del matrimonio gay, in nome della lotta contro le discriminazioni.
Nel 2010 gli eurodeputati hanno dimostrato che non veniva garantito il diritto alla libera circolazione, dal momento che non in tutti i paesi membri dell’UE erano riconosciute le unioni tra omosessuali. Data la mancanza del consenso europeo, la Corte Europea dei Diritto dell’Uomo - le cui sentenze sono vincolanti – ha preferito lasciare “gli stati membri liberi di decidere autonomamente, se introdurre il matrimonio omosessuale all’interno del proprio ordinamento giuridico”.



La Francia resta indietro
Il diritto europeo non si applica al matrimonio e spetta quindi a ciascuno stato decidere in merito alla questione.
La Danimarca è stata il primo paese al mondo a consentire le unioni civili tra persone dello stesso sesso, sin dal 1989, anche se l’Organizzazione Mondiale per la sanità (OMS) eliminerà solo nel 1993 l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. I diritti adottati sono stati poi allargati all’adozione nel 2009, concedendo gli stessi sia alle coppie eterosessuali che omosessuali.
L’Olanda è stata il primo paese europeo ad autorizzare il “matrimonio” in senso stretto tra persone dello stesso sesso nel 2001, seguita dal Belgio nel 2003 (con l’adozione nel 2005), la cattolicissima Spagna nel 2005 (contemporaneamente all’adozione), la Norvegia nel 2008 (con l’adozione), la Svezia nel 2009 (con il divieto del rifiuto del matrimonio religioso per gli omosessuali) e il Portogallo e l’Islanda nel 2010.
La Germania e l’Inghilterra, così come la Francia, consentono le unioni civili ma si oppongono ancora al matrimonio. La Slovenia, nella stessa situazione, ha annunciato nel 2009 l’intenzione di permettere il matrimonio alle coppie omosessuali.
Così, secondo il deputato socialista Patrick Bloche, “mentre la Francia era stata pioniera del voto PACS nel 1999, ora è in ritardo, considerato che nel primo decennio del 2000 già una dozzina di paesi europei ha aperto il matrimonio alle persone dello stesso sesso”.
Se la maggioranza dei paesi che autorizzano in matrimonio “gay” sono in Europa, anche grandi nazioni del mondo come il Canada, l’Africa del sud, l’Argentina, Città del Messico e cinque stati degli USA (tra cui Washington DC) figurano in questa lista.

giovedì 16 agosto 2012

Una città tutta al femminile in Arabia saudita

In Arabia Saudita presto una città interamente riservata alle donne
Articolo pubblicato in Francia il 13 agosto 2012
Traduzione di Claudia Marruccelli
Non possono ancora votare, ne’guidare un’auto, ma le donne saudite avranno presto una città tutta per loro.

Le autorità del regno più conservatore del Golfo Persico hanno dato il via libera ad un progetto per la costruzione a Hofuf, nell’est del paese di una città industriale, interamente dedicato al sesso debole. Il complesso, che verrà inaugurato l’anno prossimo, consentirà alle lavoratrici di diventare imprenditrici e assumere alle loro dipendenze altre donne arabe, senza violare la legge mussulmana, che impone in tutto il paese la divisione degli spazi vitali e lavorativi tra donne e uomini.
Discriminare per favorire l’emancipazione? Secondo il presidente dell’Autorità Saudita per la Proprietà Industriale (Modon) che sovrintende il progetto, l’equazione potrebbe rivelarsi vincente. In un’intervista al quotidiano britannico The Guardian, il responsabile si è detto certo che le donne potranno dimostrare la loro efficacia in molti campi e scegliere le attività che più sono adatte ai loro interessi, alla loro natura e alle loro capacità ».
Sul posto, che metterà a disposizione uffici e persino linee di produzione, verranno creati quasi cinquemila posti nei settori tessile, farmaceutico e agro alimentare. Secondo Molon l’attuazione del centro di Hofuf, situato nei pressi dei quartieri residenziali, «permetterà alle donne di spostarsi più agevolmente dalle case ai propri posti di lavoro ».

Il progetto promosso da un gruppo d’imprenditrici saudite, ha come scopo la creazione di nuove opportunità di lavoro per le neodiplomate. « La nuova città industriale avrà anche un centro di formazione professionale per aiutare le donne a sviluppare il proprio talento e a prepararle al lavoro in fabbrica » spiega l’imprenditrice Hussa Al-Aun al quotidiano arabo Al Eqtisadiah.
Vittime di una delle società più repressive del mondo, le donne saudite hanno difficoltà ad accedere al mercato del lavoro. Posso lavorare come cassiere nei supermercati o allo sportello (non misto) delle banche, e solo da poco possono lavorare nei negozi di abbigliamento intimo femminile. Con un regio decreto, entrato in vigore nel mese di luglio, si sono ora aperte anche le porte dei negozi di cosmetici, anche se le autorità religiose saudite stanno cercando di frenare qualsiasi tentativo di progresso.
Emittente televisiva gestita da donne in un paese musulmano
Una comunicazione del comitato dell’Ifta, che dipende dal comitato degli Oulemas, uscito nel mese di novembre 2010, ricordava alle donne, e in particolare alle cassiere, che “non era loro consentito lavorare in luoghi frequentati dagli uomini” e che “dovevano trovarsi dei lavori in cui non possono essere attratte dagli uomini, ne’ attrarli”.

In tempi più recenti, la presenza di atlete saudite a Londra ha sollevato le ire dei conservatori che, tramite un post su Twitter, hanno accusato il presidente del Comitato Olimpico di “offrire delle saudite alle Olimpiadi”. Ai Giochi di Pechino, nel 2008, il regno Wahabita era stato uno tre paesi nel mondo, assieme al vicino Quatar e al sultanato del Brunei, ad inviare nella capitale cinese una delegazione esclusivamente maschile.
Deciso a riformare e a modernizzare la società, il re Abdullah ha comunque promesso l’accesso alle urne alle donne entro il 2015. “Perché, in conformità alla Charia, e a seguito di consultazioni con molti studiosi (religiosi), noi rifiutiamo la marginalizzazione del ruolo della donna nella società saudita in tutti i campi”, quindi esse potranno finalmente votare ed essere persino elette in parlamento.
Libertà e giustizia tranne alle donne e ai Dhimmis (Ebrei e cristiani)
- Al-Husseini


martedì 14 agosto 2012

La crisi economica costringe gli Italiani a rinunciare alla Costa Azzurra

La crise prive les Italiens de vacances sur la Côte
Pubblicato in Francia il 14 agosto
Traduzione di Claudia Marruccelli

Il calo presenze è stimato al 12% sulla Costa Azzurra. Motivo principale di questo riflusso ? La recessione che penalizza le partenze per le ferie del ceto medio.
Ma dove sono finiti gli italiani? Anche se da tempo terra di elezione per le loro vacanze, quest’estate ne vediamo pochi sulle nostre spiagge e montagne. Responsabile? La crisi e le misure di austerità avviate dal presidente del consiglio Mario Monti e che colpiscono in pieno le classi medie.
Naturalmente l’Italia resta il maggiore mercato estero della Costa Azzurra e del Principato di Monaco, con circa 1 milione di visite all’anno, ma ora la clientela transalpina non ama più tanto la nostra regione. “Nel primo semestre del 2012, i pernottamenti in alberghi e residence sono calati del 12%”, comunica Eric Doré, amministratore delegato del Comitato Regionale del Turismo in Costa Azzurra. “Questo calo sembra continuare in luglio, e il mese di agosto, di solito scelto dai turisti italiani, e potrebbe essere influenzato da questa perdita”.
Di fatto normalmente nei mesi di luglio e agosto, gli italiani presenti in Costa Azzurra sono 250.000. Il calo pronosticato, per questa estate 2012 sarebbe di 30.000 unità. Quindi il 12% in meno. Questa percentuale si riferisce principalmente al mercato dell’ospitalità, vale a dire alberghi e residence, in cui soggiorna il 35% dei vacanzieri italiani, mentre il 20% preferisce la sistemazione in campeggi, agriturismi, o appartamenti in affitto, e il 45% opta per l’alloggio non commerciale: parenti, amici, seconde case.

Si recupera forse a FerragostoMichel Tschann, presidente del Sindacato Albergatori del dipartimento Nizza Costa Azzurra, ha osservato il fenomeno: “Il calo delle presenze si colloca intorno al 10% nel mese di luglio e probabilmente arriverà al 15% in agosto, periodo in cui, di norma, la percentuale delle presenze italiane è molto importante”, Ferragosto potrebbe quindi sopperire alla carenza di afflusso con le “prenotazioni last minute”.
Anche le seconde case in Costa Azzurra non sono risparmiate dall’assenteismo, gli italiani attualmente devono pagare l’ICI anche per la prima casa in Italia, oltre che in Francia per la seconda. Nonostante tutto questi appartamentini restano il modo migliore per i nostri vicini di trascorrere le vacanze in Costa Azzurra risparmiando parecchio e ospitando anche amici o parenti, penalizzati da oltre un anno dalla recessione , dalla disoccupazione al 11%, dal costo della vita, l’aumento del prezzo del carburante, la pressione fiscale … Un contesto sfavorevole di cui la Federazione albergatori italiani ha stabilito che “sei italiani su dieci non andranno in vacanza quest’estate, di cui tre per ragioni economiche”.

La dolce vita ? Basta !

lunedì 13 agosto 2012

“Trieste, così incurante nella crisi”

«Trieste, si indolente dans la crise»
di Richard Werly
Pubblicato in Svizzera il 10 agosto 2012
Traduzione di Claudia Marruccelli per Italia Dall'Estero

Gabriele D'annunzio
“Trieste così incurante nella crisi”. Aperto verso i Balcani, il porto è così impregnato di Mitteleuropa. Nel grande Caffé Tommaseo, la sua identità meticcia ha cancellato i ricordi di Gabriele D’Annunzio e dell’irredentismo degli anni 20. Tra turisti italiani e Yugonostalgia, i suoi cittadini invecchiano restando passivi di fronte alla crisi.
Ha appena concluso il suo discorso. Gli occhi iniettati di sangue, i sottili baffetti ben lisciati, Gabriele D’Annunzio si pavoneggia, sulla foto, nell’uniforme che indossa stranamente con papillon e un pugnale appeso in vita. La sala principale del Caffé Tommaseo, uno dei primi di Trieste, inaugurato all’inizio del 1830 nel grande porto austroungarico, sembrava interamente avvolta di fumo di sigari. All’interno protetta dal sole del mese di agosto 1919: una riunione di eclettici nobili italiani, di avventurieri e disertori dell’esercito sconfitto degli Asburgo. Autore ammirato in tutta Europa, veterano della Grande Guerra appena vinta, il cantore dell’”irredentismo” transalpino ha convocato qui lo stato maggiore della sua “legione”. Obiettivo: riconquistare Fiume - oggi Rjieka in Croazia - e tutti i territori della costa adriatica di popolazione a maggioranza italiana.
Fuori sulla piazza che si affaccia sul porto: una folla eterogenea di volontari, di curiosi e, di ufficiali senza dubbio preoccupati per questa eccitazione. Alle porte dei misteriosi Balcani che si aprono verso il passo di Opicina, Gabriele D’annunzio va ripetendo da più giorni: la giovane Italia, potenza vittoriosa, otterrà con la forza la sua parte dello smembrato impero Austro Ungarico. E poco importa se poi dal promontorio di Miramare, dove si addossano le une alle altre le loro ricche ville, le grandi famiglie di armatori greci, di mercanti armeni, di banchieri ebrei lo prendono in giro. Il “poeta con il casco” - di cui il giornalista francese Albert Londres tesserà ciecamente le lodi una volta che Fiume verrà conquistata nel dicembre 1920 - giura che il suo nazionalismo trionferà sulla diplomazia. Germe del fascismo che sta per nascere.

Sabrina Morena
Matteo, il libraio di via San Rocco incontrato la sera prima nella terrazza dello stesso Caffè Tommaseo, chiude il suo album preferito di vecchie fotografie. Sembrava così lontana, questa febbre nazionalista degli anni Venti nella Trieste meticcia di oggi, bloccata, secondo le parole dello scrittore e viaggiatore Claudio Magris, tra una “venezianità aperta e una Mitteleuropa problematica” …
Sabrina Morena ci ha raggiunti. Drammaturga, autrice di “Viaggio di Caterina”, ispirato al processo, negli anni 1890, di una domestica arrivata dalle campagne friulane e accusata di infanticidio nella Trieste fortunata e cosmopolita, direttrice del festival culturale “S/paesati” dedicato alle minoranze, conferma: ” Trieste resta prima di tutto una città di frontiera, spiega, mentre una giovane solista si accomoda al grande pianoforte a coda. Non è una città di certezze, ma di indecisioni. Il suo universo non è l’Italia, ma l’Europa centrale.”
Ma allora come ha potuto dubitarne D’Annunzio, il poeta guerriero? Nel meraviglioso contesto urbano di Trieste, costruito dai migliori architetti del fiorente impero austro ungarico alle soglie del XIX° secolo, tutto conduce a questa variopinta identità di cui il Caffè Tommaseo è il testimone. Proprio lì accanto: la chiesa bizantina della comunità greca, i cui discendenti si dice posseggano ancora una grossa fetta del patrimonio terriero della città. A meno di duecento metri, di fronte al Canal Grande: l’imponente cattedrale della comunità serba, la principale della città. “Il Tommaseo rappresenta la Trieste avventurosa, miniera di sogni e miraggi, Matteo, il libraio, ce lo aveva già annunciato. Il luogo ideale quindi per raccontare la saga di questo porto ritornato in seno all’Italia nel novembre del 1954, dopo essere stato per dieci anni un “territorio libero” dell’ONU. Addossato a quell’altro muro che divideva l’Europa, quello della Yugoslavia. Seduti su una terrazza, quattro pensionati triestini hanno appena preparato la scacchiera su un tavolino poco distante. Il Piccolo, il quotidiano locale, pubblica il programma dei concerti della sera, in Piazza Verdi, dove dei magazzinieri sloveni e croati si danno da fare. Sabrina Morena, francese da parte di madre, sorride guardando la nostra lista dei bar e dei luoghi emblematici, appena estrapolata da Microcosmi e Danubio, due delle opere di riferimento di Claudio Magris.


L’autore triestino che speravamo di incontrare, avrebbe optato quasi a colpo sicuro per il “suo” Caffé San Marco in via Cesare Battisti, accanto ai giardini pubblici. Un condensato di Italia, inaugurato il 3 marzo 1914 “nonostante l’opposizione del consorzio dei baristi”, in seguito saccheggiato il 23 marzo 1915 dagli sgherri austroungarici. Al Tommaseo, le arringhe irredentiste e folcloristiche di D’Annunzio del dopoguerra, sulle rovine dell’impero sconfitto. Al San Marco, racconta Magris, “la fabbrica dei passaporti falsi per i patrioti antiaustriaci desiderosi di trasferirsi in Italia” dopo il rimpatrio a Trieste, il 2 luglio 1914 della salma dell’arciduca Ferdinando, assassinato a Sarajevo.
Raccontare la città tra questi due bar non è possibile in questo fine luglio. Il Caffé San Marco. chiuso per ferie, ha costretto i suoi clienti abituali ad andare altrove. Con rammarico di Alessandro. Il giovane proprietario della casa editrice Asterios, fondata da suo nonno immigrato greco, voleva invitarci assieme alla sua compagna Eugenia, a gustare un incomparabile caffè Illy, caffè triestino ma ormai di fama mondiale.
La discussione si apre nella sua libreria, di fronte alla sinagoga. Una strana combinazione, quella di una casa editrice alternativa, specializzata in autori contro corrente vicini alla sinistra radicale, e di questo porto paralizzato nel suo patrimonio, dalla popolazione che invecchia, sul lungomare, il Viale Miramare. “Alessandro rettifica “Ci sono due Trieste nella crisi”. Una città in cui tutti si conoscono, tentata dal populismo di destra alla Berlusconi come buona parte d’ Italia, accecata dal denaro facile. E un’altra, in costante evoluzione sotto l’influenza dell’immigrazione e delle nuove generazioni”.

Caffé San Marco
Ritorno al Caffé Tommaseo. Guido, seduto dietro la cassa, è divertito dalla coincidenza. La nostra nuova interlocutrice, la docente slovena Marjia Mitrovic, ha scelto di sedersi, senza accorgersene, proprio sotto a un ritratto di nudo femminile appeso al muro. Colori sgargianti, forme provocanti: l’opposto delle modanature d’epoca dei mobili, delle tovagliette di pizzo e dell’atmosfera un tantino antiquata.
Una buona scelta però. Poichè Marja conosce i cambiamenti! Non si può parlare di Trieste se si dimentica ciò che essa rappresentava per noi yugoslavi negli anni 60-70. Trieste era l’Occidente. La libertà. La società del consumo. E in qualche modo è rimasta così in questo immaginario” spiega la docente universitaria trasferitasi a Trieste dopo lo smembramento della ex-Yugoslavia.
I camerieri anziani del Tommaseo sono d’accordo. Piazza Ponterosso, oggi un parcheggio, non ospitava un tempo uno dei più grandi mercati all’aperto d’Europa? I frigoriferi, le cucine a gas, balle di vestiti si ammassavano sui tetti delle macchine in partenza verso il paese di Tito. Indelebile “Yugonostalgia”: “Non deve meravigliare che Trieste sembri così incurante nella crisi attuale, ammette Sabrina Morena. Ne ha viste parecchie, veramente molte”.


Giorgio Cicogna è il risultato di questo crocevia dei Balcani. Nato a Trieste dove è cresciuto, questo diplomatico, ex collaboratore di numerosi ministri italiani, è il direttore di “Iniziativa per l’Europa Centrale”, un’organizzazione che riunisce diciotto paesi della regione*. La crisi? “Questa città ha accumulato favolose risorse lungo tutti gli anni dei suoi cambiamenti, racconta. E’ fornita di solidi ammortizzatori”. Sua moglie, nata in un altro piccolo angolo d’Europa, la piccolissima regione germanofona del Belgio, aggiunge: “A Trieste è difficile rendersi conto delle difficoltà finanziarie che attraversano la penisola”. Scesa la sera, i ristoranti alla moda sul lungomare sono affollati. Le targhe automobolistiche croate, slovene, serbe indicano quanto il porto continui ad essere una calamita, al di là delle montagne d’Istria. Anche se l’attività, sui suoi binari deserti, è solo il fantasma del traffico marittimo di un tempo.
Come per smentirci, il salone del Caffér Tommaseo si è improvvisamente riempito. Ancorata proprio di fronte Piazza Italia, a una decina di metri dall’ex palazzo della Lloyd Adriatica ora diventato prefettura, una nave da crociera Costa sfida l’enorme gru di scarico, entrata in servizio all’inizio del secolo scorso e ormai monumento storico industriale. Sabrina Morena sorride:” La città ritorna ad essere italiana grazie ai turisti, costretti dalla crisi a limitare i loro viaggi all’estero”, fa notare, indicando sul porto l’ingresso del suo festival, il Teatro Milla, teatro sloveno.
Ex territori irredenti al confine con la ex Yugoslavia 

Eletta recentemente consigliere provinciale del Partito Democratico, l’autrice sa quel che dice:” Trieste non è più la città mercantile di un tempo. Sta diventando sempre più un museo. Occorre rivedere la nostra identità”. I camerieri del Tommaseo si fanno largo tra i tavolini. Il pianoforte ha smesso di suonare da una mezz’oretta. Esclusi i turisti, i triestini che sono si accomodati hanno tutti un’età avanzata. Si dice che due abitanti su tre siano pensionati. Un ambiente ben lontano dalla città in ebollizione, sinonimo di avventura, che D’Annunzio tentava allora di convertire al suo sogno irredentista.
La verità? Melitta Richter, insegnante di letteratura serbo-croata, azzarda un’ipotesi, accomodandosi sotto al vecchio orologio del Tommaseo. “Trieste non è più un punto di partenza. Non esiste più la ferrovia che la collegava a Lubiana. Perdendo i suoi collegamenti di un tempo con l’entroterra balcanico, essa ha perso la sua forza e finge di ignorare i nuovi arrivati, immigrati cinesi, somali, o del vicino oriente”. A conferma di questo cambiamento di tendenza, la statua di bronzo dello scrittore irlandese James Joice, contemporaneo di D’Annunzio, si affianca oggi, sul canale, alle strade piene di negozi cinesi da quattro soldi.
“La vera crisi, per una città leggendaria come Trieste, è essersi normalizzata” il libraio Matteo sorride di fronte ad un caffè ristretto Illy, concludendo in dialetto friulano, di fronte all’Adriatico illuminato dal sole :”Cos ti vol, no si pol!” (Che vuoi, non ci possiamo fare nulla!). * www.cei.int



La mafia fa quattrini con l’oro degli italiani

La mafia fait son beurre avec l'or des Italiens

Pubblicato in Francia il 5 agosto
Traduzione di Claudia Marruccelli per Italia dall'Estero
Pubblicata su Liberi Vicentini


Gli orafi italiani insorgono contro il recente proliferare di negozi che offrono agli italiani colpiti dalla crisi la possibilità di scambiare il proprio oro per denaro sonante, un commercio in piena espansione ma con poche regole e in cui la mafia maneggia miliardi.
Questi negozietti sono spuntati come funghi nelle strade italiane in questi ultimi mesi. I giornali sono strapieni di pubblicità per “compro oro” [in italiano nel testo NdT] e le emittenti televisive sono invase da spot pubblicitari che esortano gli italiani a corto di liquidità a vendere i gioielli di famiglia. Gran parte di quest’oro poi viene fatto passare al di là delle Alpi - legalmente o illegalmente - per arrivare in Svizzera, cosa che ha contribuito a far diventare l’oro il prodotto d’esportazione italiana più diffuso.
Secondo i dati ufficiali i sequestri di oro da parte della dogana sono balzati al 50%. Un recente esempio in cifre: un uomo e sua figlia arrestati mentre tentavano di contrabbandare 50 chili di lingotti senza punzoni per un valore totale di oltre due milioni di euro.
“Questo è un settore in crescita per le organizzazioni criminali. L’oro di contrabbando invade tutto il mondo, in particolare paesi dove viene scambiato con armi e droga”, spiega Ranieri Razzante, capo dell’AIRA, un’associazione italiana antiriciclaggio.
Le vendite legali di oro italiano in Svizzera hanno raggiunto le 20 tonnellate l’anno scorso, contro le 73 tonnellate nel 2012 e le 64 tonnellate nel 2009, senza contare il contrabbando. Secondo l’associazione italiana degli orafi (ANOPO) “quasi tutto l’oro esportato proviene da negozi che acquistano oro usato in cambio di contanti”.


“Miniera d’oro”
“‘Italia è diventata una vera miniera d’oro” ammette Ivana Ciabatti, responsabile del settore orafo all’interno della Confindustria. “E’ fondamentale combattere contro gli elementi criminali in questo settore”, afferma.
Il fatturato generato da questa miriade di negozietti arriva per lo meno a 14 miliardi di euro secondo l’ANOPO, che si sta impegnando in una campagna in favore di una legislazione che impedisca l’infiltrazione della mafia in questo settore.
Grazie ad una lacuna giuridica, questi istituti possono ancora sfuggire all’IVA. Inoltre, su 28.000 negozi presenti nel paese, solo poche centinaia sono regolarmente iscritti alla Banca d’Italia.
Tra i più grandi possessori di oro figurano tradizionalmente i privati. “Le famiglie a corto di liquidità ora possono vendere facilmente i loro vecchi gioielli, il punto di svolta è stato l’anno scorso con il peggioramento della crisi economica”, osserva Alessandra Pilloni, analista di Buillon Vault, broker specializzato nella vendita di oro su Internet con sede a Londra.
Un sistema molto attraente tanto che il prezzo del metallo giallo è salito improvvisamente: da 244 euro l’oncia nel 2002 a 1300 euro a tutt’oggi.
Il gruzzolo ha suscitato la cupidigia delle organizzazioni criminali, che “controllano almeno il 50% dei negozi che acquistano oro usato”, denuncia Ranieri Razzante.
“Usano prestanome per non lasciare tracce e dispongono di fonderie illegali nei cortili di città come Napoli” spiega.
Nel mese di marzo, il ministro degli interni Anna Maria Cancellieri ha sottolineato che questo settore ha generato “un mercato nero che richiede un monitoraggio costante degli ambienti criminali in cui viene praticata l’usura, la ricettazione e il riciclaggio di denaro sporco”.
Di fronte a questo fenomeno, una deputata del Partito Democratico, Donella Mattesini ha presentato il mese scorso un disegno di legge per intensificare i controlli su questi esercizi. “Abbiamo un urgente bisogno di regolamentare questo settore. Dobbiamo controllare le fonderie e i negozi. E’ ora di fare pulizia in tutto il settore commerciale dell’oro in Italia” dice.

mercoledì 8 agosto 2012

François Hollande, “l’amico francese” degli italiani

François Hollande, "l'ami français" des Italiens

Di Marcelle Padovani
Pubblicato in Francia il 31 luglio 2012
Traduzione di Claudia Marruccelli per Italia Dall'Estero



Nell’immaginario italiano, il capo di stato francese sta diventando sempre più l’uomo del “nord” che ha a cuore gli interessi dei popoli del “sud”

François Hollande sta conquistando gli italiani. I media lo descrivono come un “amico” dell’Italia, dell’euro e dell’Europa, e questo basterebbe a renderlo simpatico. Ma ha un atteggiamento talmente anti Merkel, anti Sarkozy e anti “Merkozy”, che gli italiani si sentono portati a rivedere l’opinione che avevano avuto durante la campagna presidenziale a proposito della sua eccessiva “morbidezza” e “indecisione”.
Nell’immaginario italiano François Hollande sta diventando sempre più l’uomo del “nord” che ha a cuore gli interessi dei popoli del “sud”, italiani, spagnoli, greci, ingiustamente disprezzati dalla Germania e dai suoi alleati di Finlandia e Olanda. E’ la prima volta dall’epoca Mitterrand che si verifica una simile osmosi tra l’umore dell’opinione pubblica e le sensazioni dei politici.



Antagonismo convergente

La prima conseguenza è che Mario Monti, sostenitore convinto del liberalismo, tecnico privo di qualsiasi simpatia verso il socialismo, si sente a proprio agio con il presidente francese. Chissà se prima o poi “Super Mario” si convincerà che le idee “tecniche” permeate di “conservatorismo sociale” non sono le uniche valide nel mondo capitalistico occidentale? Chissà se, pur avendo i due presidenti radici ideologicamente così contrapposte, non possa prevalere il sentimento comune di interesse nazionale ed europeo, che per una volta coincidono alla perfezione?


Superata l’epoca berlusconiana?
Tutti gli italiani considerano François Hollande all’origine nella recente inversione di marcia della Germania, che è sfociata nella dichiarazione della cancelliera “Faremo di tutto per proteggere l’Euro” e nella richiesta di rispettare le decisioni concordate in occasione del vertice del 28 e 29 giugno, che doveva prendere le difese delle banche spagnole contro la speculazione e dello stato italiano contro le variazioni ingiustificate dello spread.
Tutti pensano che il suo appoggio al presidente della BCE, Mario Draghi, rischia di essere decisivo per trascinare l’Europa e l’euro fuori dalla grave crisi che li sta sconvolgendo.Tutti si rallegrano della fine dell’asse Parigi-Berlino, così rigido da sembrare un direttorio. La Repubblica ha scritto “E’ merito del presidente francese”, mentre il Corriere della Sera si dice lieto che François Hollande abbia riconosciuto pubblicamente che l’Italia ha fatto tutto il possibile per tornare in carreggiata dopo gli anni disastrosi del lassismo berlusconiano. Persino i (piccoli) avatar della vita privata del presidente francese sono stati visti con indulgenza dagli italiani: il fatto che Hollande sia circondato da una ex moglie e dall’attuale compagna, entrambe ambiziose e moderne, è un po’ diverso, bisogna dirlo, dalle vicende di culi, vergini, minorenni, subrettine e escort di ogni tipo che hanno caratterizzato il “ventennio” berlusconiano.


giovedì 2 agosto 2012

Le montagne di debiti delle città italiane

 

Les montagnes de dettes des cités italiennes


di Sylvie Arsever
Pubblicato in Svizzera il 24 luglio 2012
Traduzione di Claudia Marruccelli per Italia dall'Estero




Situazione degli Stati dell'UE e del loro debito pubblico

Dopo Venezia, nel XII secolo, le città mercantili dell’Italia settentrionale iniziarono a convertire il proprio debito in titoli negoziabili che garantivano una rendita più o meno regolare a chi li possedeva. Un modello destinato a fare scuola.
A Firenze, tutto inizia con dei fallimenti: nel 1343, la famiglia Peruzzi, che ha prestato soldi a Edoardo III di Inghilterra, va in rovina a seguito della decisione di quest’ultimo di dichiarare bancarotta. Il prestito concesso ai monarchi ha trasformato i ricchi negozianti fiorentini, primi fra tutti i Medici, in banchieri d’Europa. Ma i sovrani hanno potere, sono capricciosi e i rischi sono elevati. Il fallimento di queste due famiglie, seguito da quello di molte altre, tra cui i Bardi, anch’essi influenti, scuote la Repubblica.

Bisogna trovare denaro e le tasse sono fuori questione. Il nobile Gualtieri di Brienne si è appena fatto cacciare per questo. I negozianti e gli artigiani italiani resistono con tutte le loro forze contro la tassazione diretta: un’ignominia, secondo loro, da riservare ai sudditi o ai vinti. In alternativa, concedono prestiti al Tesoro pubblico, a volte in misura volontaria a volte costretti, che  fino al allora erano stati rimborsati negli anni successivi la loro emissione, prima di iniziare ad accumularsi.
Nel 1347, i debiti dello Stato vengono raccolti in un unico fondo, il Monte comune, una montagna di debiti che le autorità ammettono di non essere in grado di rimborsare “per il momento”. Il comune concede un interesse del 5% inferiore a quelli applicati fin’ora, e in cambio autorizza coloro che avanzano crediti nei confronti del monte a rimetterli in vendita sul mercato.

Pagine del Libro dei prestiti della casa di san Giorgio (Genova)

In questo tipo di operazione è stata individuata la genesi di molti fenomeni, dalla nascita di un debito pubblico consolidato nel senso moderno del termine, all’ antica origine delle banconote. Gli storici fanno notare che si tratta di una considerazione che senza dubbio non tiene conto del modo in cui i contemporanei vivevano quella situazione.  Ma una cosa è certa. I crediti sui monti veneziani e fiorentini, come quelli sull’omologa genovese, la [Casa delle] Compere, diventano rapidamente un mezzo di pagamento, ancor più apprezzato se si tiene conto che le finanze commerciali italiane sono perennemente bloccate dalla strettezza di denaro [in italiano nel testo, N.d.T.], mancanza di moneta, la cui quantità è determinata dalla quantità di metallo prezioso a disposizione.
L’altra moneta, almeno, non può fallire. Il primo monte creato a Venezia nel 1262 esiste tutt’ora, ed è chiamato Monte Vecchio da quando è stato creato nel 1482 un Monte Nuovo, a cui ha fatto seguito l’apertura nel 1509 di un Monte nuovissimo...
A Firenze non aspettano così tanto. La fine del XIV secolo vede il moltiplicarsi di vendite pubbliche, in cui i nuovi titoli sono venduti a volte per la metà, altre addirittura per un terzo del loro valore nominale.

I motivi di questa continua necessità di denaro sono sia dovuti alle circostanze - vengono emessi nuovi titoli in occasione di conflitti bellici, all’epoca numerosi, in cui la città è coinvolta - che strutturali: le tasse vengono man mano sempre più assorbite dagli interessi del debito. Le ricchezza, quindi, si sposta sempre più verso i ceti alti: le rendite dei dazi e delle gabelle, che gravano su tutti i cittadini, confluiscono nelle borse di chi è stato in grado di concedere i prestiti più sostanziosi. Nel 1352, il 2% dei fiorentini più ricchi detiene il 25% delle ricchezze, che diventano il 42$ nel 1404.
Questo fenomeno non sfugge agli osservatori del tempo, che muovono critiche verso un processo che priva la popolazione attiva di capitali, mentre arricchisce coloro che non lavorano - una recriminazione che ritroveremo in tutta la storia delle rendite. Il debito è all’origine delle rivendicazioni dei “ciompi”, i lavoratori del settore tessile, che nel 1378 si ribellano chiedendone l’ammortamento, oltre la soppressione degli interessi e l’introduzione di un’imposta diretta.

Non è ancora il momento. La rivolta viene sedata e la montagna continua a crescere: nel 1427, le entrate non sono più sufficienti per garantire la gestione dei debiti. Un secolo dopo, lo storico Francesco Guicciardini dirà in poche parole: o Firenze distruggerà il Monte, o il Monte distruggerà Firenze…
Usurai


La questione è così scottante che il prestito con interesse diventa oggetto di un’ accesa discussione teologica. Per i padri della Chiesa, il denaro deve circolare ed essere messo a disposizione dei bisognosi. Bisognerà attendere l’inizio del XV secolo perché Bernardino da Siena ammetta che il risparmio è legittimo solo se ha come scopo un investimento a favore del bene comune.
Più che le differenze economiche tra i feudatari e i loro servi, la critica al lucro colpisce i negozi e il prestito con interesse. Le continue condanne dei concili a partire dal XI secolo non portano a nulla: il credito, in particolare su pegno, si diffonde a tal punto che i francescani creeranno nel XV secolo dei loro monti, finanziati con le offerte e destinati ai poveri: i monti di pietà.

Spesso, ma non sempre, gli usurai sono ebrei. Autorizzati ad esercitare nelle città  in base ad accordi che fissano i tassi e le loro condizioni di attività, questi ultimi sono spesso costretti attraverso minacce di espulsione o strumentalizzazioni dell’ostilità popolare, a rinegoziare i loro interessi al ribasso, ossia ad acquistare il proprio diritto di soggiorno mediante delle elargizioni nei confronti della collettività pubblica.

Se il Vaticano resta fermo nella sua condanna all’usura, alcuni giuristi cercano di adattare la dottrina alla realtà: dopotutto, chi presta ad un infelice spinto dalla carità cristiana, non si priva del profitto che avrebbe potuto guadagnare usando in altro modo il suo denaro?
Con il passare del tempo si diffonde la distinzione, ancor oggi in uso, tra l’interesse legittimo e quello estorto ad un creditore messo alle strette; una sfumatura che, in pratica, si basa sull’aliquota del tasso applicato, e spiega perchè gli interessi sui monti restano ufficialmente bloccati al 5%, cosa che spinge ad emettere titoli ad un valore inferiore di quello nominale.

Se il prestito allo Stato in sé è consentito - non è forse espressione del giusto attaccamento dei cittadini alla loro patria? - il fatto di ripagarlo con gli interessi è messo in discussione molto più frequentemente. La vendita dei titoli genera aspri contrasti tra i commentatori, e soltanto i più audaci la difendono come fosse un normale contratto commerciale.
Questo non impedisce ai mercati dei monti di restare particolarmente attivi. Fino al 5 % del debito pubblico, secondo lo storico Luciano Pezzolo, viene scambiato ogni anno. Lo si trova nei testamenti, nelle beneficenze fatte ai poveri, nelle donazioni alle fondazioni di carità. Lo si utilizza come garanzia, lo si scambia con immobili e, utilizzando un importo equivalente in denaro liquido, si può anche utilizzare anche per partecipare a nuove aste pubbliche...




Nel 1425 nasce un altro piccolo monte, il Monte delle fanciulle, che consente ai padri di famiglia di far fruttare le somme destinate in dote alle proprie figlie. I depositi hanno una scadenza in funzione dell’età della bambina e fruttano interessi compositi. Se la figlia muore o entra in convento prima della scadenza, viene rimborsato solo il capitale netto. E’ un successo, fino a quando Lorenzo il Magnifico sospende i pagamenti. Il provvedimento contribuisce ad inasprire il malcontento, che sfocerà nell’ascesa al potere del monaco domenicano Gerolamo Savonarola nel 1494, con un brevissimo governo repubblicano e fortemente puritano.

Malgrado la caduta dei titoli a quotazioni a volte molto inferiori ai loro valori nominali, malgrado numerose moratorie sul pagamento degli interessi, possedere un buono del tesoro pubblico, anche se di poco valore, è un buon affare. Soprattutto per coloro che sono in condizione di riscattare un quinto, o anche un decimo, della quota del titolo stesso, il cui rendimento, anche se non sicuro, resta stabile sul valore nominale. Ma è una pratica che resta riservata ad un’élite: nel 1427, l’86% dei monti sono nelle mani del 10%  dei fiorentini, mentre il 71% delle famiglie non ne possiede neanche uno e talvolta si trova nelle condizioni di doversi indebitare per far fronte a prestiti forzosi.

Quest’ultima caratteristica porta alcuni storici a relativizzare la modernità apparente del sistema. Ciò che mantiene un determinato valore dei monti, malgrado una grandissima instabilità, non è il fatto che siano emessi da un’istituzione statale permanente, contrariamente a quanto succede con i buoni del tesoro contemporanei, ma lo stretto controllo che i principali creditori riescono ad esercitare sulla collettività debitrice.

E’ Genova che andrà oltre questa logica, con la creazione nel 1407 di un’istituzione del tutto nuova, con cui i creditiori della città si assicurano di fatto il monopolio sulla politica: la Casa di San Giorgio, nata dalla fusione di varie associazioni di creditori delle compere, che in cambio si erano visti cedere vari interessi fiscali e doganali. Diventata finalmente padrona assoluta di questi crediti, questa Casa assicura l’abolizione delle gabelle e ottiene progressivamente il monopolio sul commercio del sale, l’amministrazione delle colonie, la gestione del debito e l’abolizione di nuovi mutui. Basti dire che a Genova non si fa nulla se la Casa di San Giorgio non è d’accordo: un dominio privato, attenuato dai timori dei procuratori di san Giorgio, che decidono di lasciare libera una quota di partecipazione, per ammettervi al proprio interno le corporazioni importanti della città.


Banco dei pegni o Monte di Pietà



Essere iscritti nei libri contabili di San Giorgio diventa presto un sistema per fare affari a Genova. Piccole quote - o luoghi [in italiano nel testo, N.d.T.] - dei debiti circolano come moneta corrente, così come i diritti agli interessi - o paghe [in italiano nel testo, N.d.T.] - che ne derivano.
Resta la questione che si pongono tutti gli osservatori della crisi greca di oggi: come è andata a finire? Dipende. Soltanto Venezia, con uno sforzo immenso, riesce - una ventina di anni dopo la dispendiosissima vittoria di Lepanto contro i turchi nel 1571 - ad estinguere tutti i suoi debiti, per poi contrarli nuovamente una cinquantina di anni dopo.

Firenze e Genova si assestano su una forma di indebitamento perpetuo, a cui si ispireranno le corti europee, dove si diffonde piano piano il sistema di finanziamento tramite la vendita delle rendite. A Genova San Giorgio, una volta diventata istituzione stabile, attraverserà numerose traversie politiche, che sconvolgeranno la città tra il XV e il XVI secolo. Consacrando definitivamente il dominio degli interessi dell’oligarchia sull’oligarchia stessa, la Casa incarna anche una determinata concezione,finalmente stabile, di bene pubblico. La Casa di San Giorgio esiste ancora, come banca, dopo il periodo delle conquiste napoleoniche.